Rettorie

PAGINA DEDICATA ALLE RETTORIE E ALLE CONFRATERNITE APPARTENENTI AL TERRITORIO DELLA PARROCCHIA S. MARIA MAGGIORE

CHIESA DI SANT'ANDREA E CONFRATERNITA DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE

La chiesa venne eretta tra il IX e il X secolo e dedicata inizialmente a S.Maria di Costantinopoli.In essa si officiava in rito greco, in contrapposizione alla Chiesa normanna di S.Pietro, di rito latino (attuale Chiesa Madre).Ciò dimostra la convivenza di comunità di lingua e rito greco e comunità di lingua e rito latino in Gioia,come anche in centri circostanti. Le case esistenti intorno a questa Chiesa dimostrano che quel rione, “Borgo S.Andrea”, é stato il primo nucleo dell’attuale città. Sul lato Sud della Chiesa esiste un portale del 1100. Nel 1828 fu ricostruita così come è attualmente. Nel 1888 fu ampliata di una seconda navata. Vi ha sede la Confraternita della Immacolata Concezione, istituita dal Gesuita Padre Domenico Bruno nel 1721, quale estensione della Congregazione della Purificazione che operava in S.Angelo, ed approvato con Regio assenso nel 1790. Fu elevata ad Arciconfraternita, con Bolla papale di Leone XIII, il 27 gennaio del 1888. I confratelli partecipano alle processioni con càmice bianco, cingolo e mozzetta azzurro chiaro. Nella Chiesa è conservato il più antico organo esistente in Gioia, qui collocato sin dal 1745. L’organo fu restaurato per vivo interessamento del priore Romano e di tutti i confratelli. Si ammira nella Chiesa un dipinto ad olio su tela della “Madonna delle Grazie” con corona d’argento (sec.XVII).

8 DICEMBRE - FESTA DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE
La Chiesa ha sempre ritenuto che Maria S.S., per singolare privilegio, fosse stata esente dalla colpa di origine, ma soltanto Papa Pio IX definì il dogma l’8 dicembre del 1854. da allora la memoria in onore della Madonna che si celebrava in molti luoghi fin dal secolo VIII divenne festa universale.
Il culto per l’Immacolata Concezione è stato sempre sentito e molto praticato a Gioia. La festività, celebrata nella Chiesa di Sant’Andrea, veniva inaugurata da un solenne novenario di preghiere che iniziava il giorno 30 novembre e si concludeva, invece, il giorno 7 dicembre con la festa delle “Figlie di Maria”. Quest’ultima non era altro che la consacrazione di fanciulle pure alla Vergine Immacolata. Le fanciulle contraevano un vincolo con la Madonna dedicandosi alla diffusione della devozione mariana e ritardando l’età di maritaggio. Le “Figlie di Maria”, dopo aver rinnovato i propri voti con una speciale formula, precedevano il carro professionale che trasportava la statua dell’Immacolata. Le fanciulle portavano sulla fronte tre nastrini bianchi e recavano nelle mani una candela ed un giglio di stoffa. Questa pratica devozionale è decaduta a partire dalla fine del secolo scorso. I gioiesi celebravano la Festa dell’Immacolata con la fiaccolata serale davanti al carro trionfale con luminarie, fuochi pirotecnici e bande musicali. La processione percorreva le strade extramurali che circondavano il borgo antico. Lo struscio avveniva in Via Concezione abbellita da arcate minori. Un prospetto luminoso veniva montato sulla facciata della Chiesa e sull’altare maggiore veniva allestito “l’apparato” o torre dell’Immacolata. La cassa armonica era posta all’inizio dell’attuale Via Canova. Rinomati concerti musicali e la Banda delle “Fave Bianche” allietavano le due giornate festive che si concludevano con i fuochi pirotecnici. La processione serale terminava con la supplica cittadina e con la santa benedizione. Al rientro della statua in Chiesa si incendiava la “Rotella pazza”. Pere la festività mariana si consumava “l’olio buono” dell’annata friggendo in strada: ceci, pupi e pettole, tocchi di pasta lievitata, farcita con acciughe, mozzarella, pomodoro o “indorata” nello zucchero. Inoltre, in quello stesso giorno, venivano allestiti i presepi natalizi domestici e si addobbavano gli appartamenti in previsione delle imminenti festività.
La festa esterna dell’Immacolata Concezione è stata ridimensionata con la regolamentazione dei sacri riti. Attualmente la festività prevede un novenario di preghiere, offici liturgici, processione con la statua portata a spalle, luminarie, banda musicale e fuochi pirotecnici.
19 marzo - Festa di San Giuseppe
La festa di S. Giuseppe cade il 19 Marzo di ogni anno. A proposito di questa festa, si racconta che, dopo la nascita di Gesù, S. Giuseppe, per riscaldare il bambino che rischiava l’assideramento, andasse alla ricerca del fuoco. Dopo alquanto peregrinare nella notte gelida, giunse ad un bivacco di pastori, dove trovò dei carboni ancora ardenti. Li mise nella manica del vestito per trasportarli, in quanto non aveva con se un adatto contenitore e i pastori lo avevano accolto male, lanciandogli contro dei bastoni, perché aveva disturbato le pecore addormentate. Miracolosamente il vestito non subì alcun danno e così il fuoco potè riscaldare il neonato. Per ricordare tale prodigio, la sera del 19 marzo venivano accesi, per le strade di Gioia tanti falò. La raccolta della legna si svolgeva per parecchi giorni precedenti e coinvolgeva soprattutto i ragazzi, i bambini di un quartiere. La legna da ardere veniva radunata in uno spiazzo del rione, e tutto il vicinato accorreva per assistere all’accensione della catasta. In tempi più antichi il rito avveniva per mezzo della pietra focaia, le cui scintille venivano raccolte da stoppia o paglia. L’accensione era messa in opera da un uomo robusto, esperto. La fiamma così ottenuta veniva accostata alla catasta già preparata, che cominciava a bruciare. Era la nòuva-nòuve (fuoco nuovo), detto anche fanòuve. Intorno al falò, che veniva accendendosi, si formava un cerchio di uomini, che lanciavano nel fuoco diversi tipi di legno proveniente da varie piante, e soprattutto di quercia, ulivo e mandorlo. Quando le fiamme si abbassavano, sulla legna si metteva una pignatta per cuocervi dei legumi, principalmente ceci. La gente si raccoglieva attorno al fuoco, molti sedevano su panchette e sedie trasportate dalle vicine dimore. Per passare il tempo si raccontavano storie di santi e fatti miracolosi, si cantavano canti sacri. I più giovani, ragazzi e ragazze, tenendosi per mano saltellavano in girotondo intorno al falò. I legumi cotti venivano consumati sul posto. Quando la legna era consumata, alcuni si affrettavano a raccogliere i tizzoni ancora ardenti in un braciere che portavano in casa. A quel punto tutti si salutavano e rincasavano, mentre quello che restava del falò finiva di consumarsi. Il mattino successivo, le ceneri venivano raccolte e portate nei campi dove venivano sparse per favorirvi la fecondità della terra e propiziarsi un abbondante raccolto.
Attualmente, questa tradizione si mantiene ancor viva nelle corti del centro storico adiacenti la Chiesa di Sant’Andrea dove si venera San Giuseppe. La serata continua grazie ad un gruppo di musicanti che distribuiscono felicità e divertimento nei cuori della gente che è disposta intorno il fuoco a degustare i tradizionali cieci fritti e un buon bicchiere di vino.




CHIESA DI SANT'ANGELO E CONFRATERNITA DI SAN FILIPPO NERI

Alla metà di dicembre del 2005 il prof. Mario Girardi ha presentato nella chiesa di S. Angelo due tele recentemente restaurate. Queste sono tornate a splendere nella chiesa e sono due delle tre tele risalenti presumibilmente alla fine del ‘700 inizio ‘800. queste tele furono ritrovate circa 15 anni fa, durante un censimenti dei beni appartenete alla chiesa, relegate dietro l’organo. Grazie all’impegno dei Confratelli della Confraternita di S. Filippo Neri e alle offerte dei fedeli, è stato possibile il restauro delle due tele più piccole. Una tela raffigura la Madonna in trono tra Santi e Santi e l’altra il Cristo deposto tra le braccia della Vergine Addolorata. Entrambe le opere sono dipinte ad olio su tela e furono ridipinte presumibilmente verso il XIX secolo. Nella prima è possibile ammirare Santa Maria di Costantinopoli attorniate da S. Filippo e S. Gaetano da Tiere. Il culto della Madonna di Costantinopoli è inoltre rappresentato nel quadro dell’ altare maggiore che raffigura la Vergine della città bizantina che sovrasta Costantinopoli che brucia sullo sfondo (29 maggio 1453 – i turchi conquistano Costantinopoli) ed al suo fianco è possibile scorgere S. Filippo Neri, S. Giovanni Evangelista, S. Giovanni Battista e S. Luigi Gonzaga. La seconda tela rappresenta la Vergine Addolorata con una spada che le trafigge il cuore, mentre riceve sulle sue ginocchia il Cristo morto. Sulla tela sono inoltre visibili le tre pie donne, S. Chiara da assisi e S. Luigi Gonzaga. Anche questa tela rappresenta la devozione per la Madonna Addolorata che è presente nella Chiesa di S. Angelo. Come detto quindi queste tele rappresentano due culti fortemente presenti in questa chiesa, cioè quello per la Madonna di Costantinopoli e quello per la Vergine Addolorata. Anche la terza tela infatti riproduce un immagine dell’ Addolorata, ma è ancora da restaurare. Grazie all’ impegno costante e forte della Confraternita di S. Filippo Neri ora i fedeli possono ammirare queste tele restaurate che attraverso la loro esposizione li consentiranno di rinnovare la propria devozione alla Madonna.


NOTIZIE STORICHE SULLA CHIESA
La città di Gioia non ha una continua e ben precisa documentazione storica. Dalla costruzione del Castello Normanno-Svevo (XII-XIII secolo), ci troviamo ad avere notizie già alla metà del 1400 con l’edificazione della Chiesa di Sant’Angelo. Presso questa Chiesa si stabilirono cittadini nucleo della futura città. Verso la seconda metà del ‘400 ad aiutare gli Aragonesi (dinastia di origine spagnola), in lotta contro i veneziani e i turchi, giunsero dal vicino oriente gli Schiavoni e gli Albanesi, sotto la guida di Bartolomeo Paoli (infatti tuttora c’è una strada, che termina di fronte alla Chiesa di Sant’Angelo, intitolata a questo condottiero; presso il campanile c’è una piazzetta che porta il nome della moglie di Paoli, cioè Livia). Infatti è proprio di questo periodo, 1480, l’ eroica resistenza della cristiana Otranto contro i musulmani. A Gioia c’ era già una chiesa dedicata alla Madonna di Costantinopoli dove si ufficiava in lingua greca, e presso questa, chiamata poi S. Angelo, si stabilirono quelli al seguito di Bartolomeo Paoli. Intorno alla chiesa non mancavano boschi, aria buona e sottosuolo ricco di acque sorgive. Dopo un po’ la piccola chiesa fu subito ingrandita e abbellita, con la collaborazione spontanea di tutti gli abitanti. Vi si eressero due altari nuovi (o cappelle), uno in onore di S. Giovanni il Battista e l’ altro in onore di S. Michele Arcangelo, da cui poi il titolo: chiesa di S. Angelo. Accanto alla chiesa, lato est, venne costruito in un complesso di casette, un ospedaletto. Verso la fine del XVI secolo sotto l’ arcivescovo di Bari Mons. Landolfo, alla presenza di 12 vescovi della Diocesi, la chiesa fu solennemente consacrata. Sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone (1799), già cognato di Luigi XVI e residente a Napoli, la Confraternita di S. Filippo Neri, con sede nella stessa chiesa, ebbe il suo riconoscimento ufficiale con un’ autentica preziosa pergamena (la più antica della città), gelosamente conservata nell’archivio della sacrestia. Nel marzo del 1969, dopo una laboriosa burocratica attesa, la chiesa di S. Angelo, la più antica del posto, è stata riconosciuta monumento nazionale. Perché ritenuta opera di rilevante valore artistico, storico ed architettonico dalla Sovrintendenza delle Belle Arti. La muratura si conserva benissimo, basta osservare dall’ esterno la mirabile combaciatura del “càrparo” (tufo locale e durissimo). Inoltre da notare l’ inquadratura stupenda del campanile presso la facciata della chiesa dallo stile di un composto barocco. In alto, sotto la finestra centrale dalle linee curve, è incastonato un grande artistico pannello di pietra sceltissima. Su questo sbalza come un monile ottogonaleggiante, un ornamento a fogliame eseguito a scalpello, con pazientissima ed ineguagliabile maestria. Dentro la chiesa, ad unica navata, oltre quello del presbiterio (su cui troneggia un grande quadro della Madonna di Costantinopoli) ci sono altri quattro altari incorniciati in un legno con intagli, eseguiti nella prima metà del ‘900. sono stati eseguiti dall’ insuperabile artista gioiese qual era “mest” (maestro) Carluccio Curione. Sono degni di menzione la piccola antichissima statua, scolpita in pietra di S. Michele, collocata in una nicchia della calotta dell’ abside. Inoltre è degno di menzione l’organo della cantoria, fatto costruire alla fine del ‘700 ed ancora funzionante. Dalla parte di via Arciprete Gatta ci sono due lapidi sul muro laterale della chiesa, le più antiche del paese, con iscrizioni molto particolari, anche se l’usura del tempo le ha quasi consumate. La prima, del 1500, riguarda l’ erezione di S. Michele Arcangelo. L’ altra lapide di sei anni dopo (1506), parla dell’ erezione della cappella (o altare) di S. Giovanni Battista e dell’ annesso ospedale.
(Notizie tratte dai documenti della chiesa stessa conservati in archivio, con l’ interesse del Sac. Prof. Don Nicola Mazzarelli – 1971, rettore della chiesa di S. Angelo).




CHIESA DI SAN DOMENICO E CONFRATERNITA DEL SS. ROSARIO

La facciata della Chiesa di San Domenico vista da piazza Margherita di Savoia, ex piazza San Domenico, è delimitata a sinistra dall'ex Convento dei Domenicani, attuale sede del Municipio, e a destra da un fabbricato per civile abitazione. Il portale di legno è sormontato da un timpano, ornato e sorretto da mensole a volute.
Sul coronamento c'è una statuetta in pietra della Madonna, risalente al 1700 circa. Sul lato destro c'è un campanile a due piani ciascuno con quattro fornici; quelli del primo piano sono murati.
Sul prospetto destro, non visibile dalla piazza ma accessibile dall'interno della Chiesa, sono interessanti le due monofore cieche appartenute probabilmente alla chiesa prima che subisse le modifiche del 1860. Sul lato sinistro, invece, la parete della sacrestia confina con il chiostro dell'ex -convento che conserva ancora il pozzo e le arcate del portico, alcune delle quali tompagnate. Oggi è il cortile del Municipio all'interno del quale sono state rinvenute delle sepolture riferibili probabilmente alla comunità monastica.
La Chiesa di San Domenico presenta una pianta longitudinale ad una navata (18,10 x 7,90 metri) suddivisa in due campate coperta da volte a botte ornate da decorazioni a fasce.
Le campate sono delimitate, lungo le pareti laterali, da grandi arcate divise da lesene.
Da una Santa Visita di Mons. Diego Sersale (1838-63) sappiamo che la chiesa possedeva molti altari, tra cui uno portatile da costruire con baldacchino.
Lungo la parete laterale destra c'è un altare in marmo policromo al di sopra del
quale, in una nicchia, è conservata la statua di San Francesco da Paola, di notevole interesse essendo una probabile opera di un seguace di Stefano da Putignano. La statua, infatti, presenta le caratteristiche tipiche della scuola di Stefano da Putignano (famoso scultore pugliese del '500 che ha favorito la rinascita della statuaria in Puglia): uso abbondante dei colori, realismo nei particolari che suscitano coinvolgimento emotivo in chi guarda.
Come è evidente dalla base, fu forse asportata dalla chiesa precedente e riposta dopo la ristrutturazione dell'edificio. Il secondo altare a destra è in pietra scolpita. Esso presenta il simbolo domenicano del cane con la fiaccola in bocca, l'agnello mistico e la corona del martirio. Al di sopra dell'altare è collocato un dipinto raffigurante tre Santi Domenicani in adorazione del SS. Sacramento. Tra i due altari c'è un confessionale sormontato da un pulpito ligneo decorato.
Anche la parete laterale sinistra presenta due altari. Sul primo, in pietra, è scolpito il monogramma IHS. Al di sopra vi è la statua di Cristo morto e la nicchia con l'Addolorata, statua in legno policromo, risalente al 1700; il culto della Madonna Addolorata era molto diffuso in Puglia e alla Madonna si chiedeva protezione per i figli, data l'alta mortalità infantile dell'epoca.
Sul secondo altare in marmo policromo in una profonda nicchia quadrata con volute trova posto un quadro della Madonna del Rosario con Santa Caterina e San Domenico, opera piuttosto recente (1966) del famoso pittore gioiese Gino Donvito.
Sull'Altare Maggiore di marmo intarsiato si ergono quattro colonne binate con capitelli dorati reggenti una trabeazione con timpano ornato da beccatelli.
Tra le colonne vi è una nicchia contenente la statua vestita della Madonna del Rosario usata per le processioni.
Un arco a tutto sesto con l'intradosso decorato a lacunari introduce al presbiterio. Quest'ultimo è coperto da una semicupola decorata a spicchi in cui si apre una vetrata circolare raffigurante S.Domenico, opera dell'artista locale Serafino Melchiorre. La semicupola poggia su due pennacchi affrescati di recente con San Giovanni e San Luca.
L'arcata che introduce al braccio destro del transetto presenta una finestra rettangolare. Sull'arcata opposta c'è un dipinto del Sacro Cuore commissionato all'artista gioiese Van Westerhout in occasione dei lavori di ridecorazione della chiesa del 1954. Il quadro è affiancato da due angeli affrescati a monocromo.
Nella testata sinistra del transetto vi è un grande quadro intitolato “Madonna del Rosario e Misteri”. L'opera, anonima, che ricalca gli schemi iconografici del XVI e XVII secolo è di produzione locale.
I Domenicani promossero a Gioia il culto della Madonna del Rosario in epoca post-tridentina costituendo una confraternita nel 1593.
L'attuale confraternita rosariana è di più recente costituzione ed il suo Statuto è stato approvato con Regio Decreto di Ferdinando II di Borbone il 23 ottobre 1838. E' composta da uomini e donne ed ha sede nella chiesa di San Domenico. Non ricca, sempre bisognosa di fondi, si occupa della manutenzione ed efficienza della chiesa, dell'organizzazione delle feste e delle processioni legate al culto della Madonna del Rosario.
Ai confratelli e alle consorelle è assicurato il funerale e la sepoltura. Interessante è l'articolo 18 dello Statuto che stabilisce che la confraternita interviene materialmente con un sussidio in favore del confratello infermo, per tutto il tempo della malattia, escluso il caso di malattie croniche.
Viene dunque superato il concetto di carità avviandosi verso forme più moderne di assistenza sociale.
Nella sacrestia è conservato l'archivio della Confraternita; nella chiesa vi sono le statue usate per le cerimonie della settimana santa alla quale la confraternita interviene, come da statuto, con l'abito composto da un camice bianco con cordone e rosario, mozzettone nero con cappuccio e scapolare nero ornato a sinistra dall'effigie della Madonna. L'abito del Priore è ornato da un medaglione e a lui solo è consetito portare un bastone nero. Anticamente ai confratelli e ai devoti venivano distribuite immagini ottenute a timbro. Le matrici metalliche di queste immagini sono interessanti perchè la Madonna riprodotta veste l'abito antico.




CHIESA E CONFRATERNITA DI SAN ROCCO

San Rocco, personaggio tra storia e leggenda, nacque a Montpellier, in Francia, nel 1300. Dopo aver rinunciato ai suoi beni terreni, si recò in pellegrinaggio a Roma dedicandosi agli appestati che curava con il segno della Croce. Solo e ammalato, fece ritorno al paese di origine morendo il 15 agosto del 1327, dopo essere stato considerato una spia, ed essere imprigionato e maltrattato.
Secondo la tradizione la venerazione per S. Rocco di Montpellier viene resa universale dal Concilio di Costanza (1414). La venerazione per S. Rocco ebbe diffusione straordinaria a partire dalla seconda metà del secolo XV (grazie all’opera di francescani e cappuccini che lo annoveravano al Terzo Ordine dei Minori). Venerato come santo ausiliatore contro il ricorrente flagello della peste e di ogni altra epidemia. A Gioia del Colle tale venerazione giunge nei primi anni del secolo XVI secondo alcuni documenti. La tradizione vuole che il popolo gioiese avesse invocato la protezione del Santo per debellare la peste. Il Santo
apparve sulla torre delle mura cittadine (detta del Principe del Balzo), compresa nelle mura della casa posta all’angolo di Corso Cavour e di Via Canova. Il Santo apparve con la spada fiammante in mano allontanando l’epidemia. Innanzi tutto la chiesa attuale conserva ed espone tuttora alla pubblica venerazione una statua del santo in pietra policroma (restaurata qualche anno fa) opera autografa del noto scultore pugliese Stefano da Putignano. La statua è alta 1.55 metri e porta la data del 1530. una statua di tali dimensioni ed importanza non poteva non avere destinazione e collocazione (come ex-voto per la peste di quell’anno) in chiesa preesistente nel primo quarto del ‘500. La più antica attestazione della primitiva cappella rurale in onore del Santo si trova in un questionario accluso agli Atti di S.Visita del 1593: l’arciprete Polangelo dichiara che dopo S.Sofia (la patrona festeggiata l’8 settembre), i festeggiamenti più importanti a Gioia sono quelli tributati a S.Rocco (16 agosto), cui è dedicata una cappella fuori le mura. Altre attestazioni successive (1623, 1640, ecc.) ci dicono che la piccola cappella, è sita a nord-ovest del circuito murario cittadino, era affidata alle cure del Capitolo canonicale della Collegiata di Santa Maria Maggiore, che per altro provvedeva a celebrare l’unica messa solenne cantata ogni anno nella festività del Santo (16 agosto). Al suo interno essa presentava un unico piccolo altare lapideo, sormontato dalla statua del Santo, e le pareti erano internamente affrescate con immagini di Santi. Particolare notevole giammai riportato anche per le altre chiese del paese, ivi compresa la stessa Collegiata. Come abbiamo visto i Gioiesi, per il miracolo ottenuto, eressero la cappella fuori le mura, di fronte la torre sulla quale era apparsa il Santo. Secondo un’altra storia, la costruzione della Cappella fu voluta dal popolo gioiese come testimonianza di una precisa volontà del Santo. Si narra, infatti, che la statua in pietra di San Rocco (quella che oggi ammiriamo in Chiesa) avesse costretto i buoi che la trasportavano a fermarsi in ginocchio. Nonostante le innumerevoli sferzate e ogni tentativo umano, non si riuscirono a far muovere i buoi e a spostare la statua. Quindi, la statua rimase li dove fu eretta la Cappella.
Nel 1834 lo storico gioiese, abate Losapio (1762-1842), accrediterà la tradizione di un intervento prodigioso del Santo a favore dei Gioiesi in occasione della devastante peste del 1656, ed accostandolo alla protezione sperimentata dagli stessi Gioiesi per il terremoto del 1731 grazie a S.Filippo Neri, emergente nuovo patrono cittadino, rivendicherà pari onori anche per S.Rocco. Il colera del 1837 ( a Gioia fece 633 vittime su 12.648 abitanti) e quella del 1854 faranno maggiormente rifiorire il culto a dimensione popolare: quattro anni dopo (1858-1859), infatti, sarà costituita la Confraternita di S.Rocco che, accanto all’impegno di incentivare la devozione propria e del paese al Santo, prese solennemente anche quello di sostituire l’antica e angusta cappella rurale (in passato utilizzata anche come <> fuori le mura per gli appestati), ormai inglobata nel tessuto urbano e inadeguata alle accresciute esigenze dello sviluppo culturale oltrechè demografico, con la costruzione ex-novo di una chiesa più grande e decorosa. Il 26 novembre 1860 con atto di compravendita, stipulato dal notaio Donatantonio Taranto, il sig. Filippo Cassano vende alla confraternita, al prezzo di 900 ducati d’ argento, un suolo di 150 vanne di sua proprietà, al solo fine della erezione della nuova chiesa in contiguità di quella esistente. Il 10 febbraio dell’anno successivo fra i “deputati” che devono sovrintendere alla costruzione della nuova chiesa spicca in primo luogo un primo sacerdote, Girolamo Pavone (1824 - 1892), animatore di tale costruzione, lui stesso confratello sinceramente devota a S. Rocco, e Direttore Spirituale della confraternita. Il 16 febbraio presso il medesimo notaio viene redatto strumento con capitolato di appalto alla presenza della deputazione eletta della confraternita e dei muratori Francesco Ferrara, Francesco Stea e Cesario Bovino. Questi dichiarano di ispirarsi nella edificazione della nuova chiesa al modello della cappella del Purgatorio di Palo del Colle. Appare però più convincente un confronto con il modello della chiesa di S. Rocco in Roma. Molti altri fedeli contribuiranno, in una sorta di gara devozionale, alla erezione del nuovo tempio ad esempio, un certo Gaetano Ludovico erogherà per testamento 300 ducati nel 1862. 200 ducati saranno offerti nel 1867 (altra epidemia di colera) dalla vedova di Leonardantonio Pellegrino. Nel 1864 sarà la volta del canonico Giovanni Sciscio con un prestito di 300 ducati. Nel 1865 viene stipulato il contratto per la stuccatura della nuova chiesa, affidata al sig. Boccasini Girolamo. Direttore dei lavori è l’architetto Vincenzo Castellaneta, padre del noto pittore Enrico. Nel 1868 è eletta una nuova deputazione (raccolta fondi) di confratelli per il completamento del campanile, ispirato, come sembra a prima vista, a quello della veneziana Basilica di S. Marco. In capo a questa iniziativa appare ancora una volta Don Girolamo Pavone. Due anni dopo (1870) la costruzione della nuova chiesa è già conclusa, praticamente nel giro di una decina d’anni.
Dal punto di vista strettamente architettonico - artistico, l’attuale edificio a tre navate si distingue all’esterno per linee sobrie e classicheggianti. All’interno la medesima sobrietà è stata negli anni ’70 del secolo scorso pesantemente nascosta, persino “sfigurata”, da un intervento di falsa marmorizzazione cromatica sulle colonne e di altrettanto improbabili dorature su capitelli e volte. Oggi la confraternita con più matura sensibilità ha in programma il ripristino della sobrietà originaria. Di marmo sono realmente tutti gli altari, soprattutto devozionali. Degni di menzione, realizzati recentemente in bronzo su disegno dell’ artista gioiese, il carmelitano Serafino Melchiorre, sono i pannelli della Via Crucis e quelli di rivestimento delle treporte di accesso, ispirati alla vita e ai miracoli di S. Rocco e alla devozione dei gioiesi verso di lui. L’ arredo iconografico, per la maggior parte contemporaneo alla costruzione della nuova chiesa ed in parte perduto, è di modeste dimensioni ed ancor più modesto valore artistico (tele, cartapeste, statue “rivestite” su impalcatura lignea. Fanno singolare eccezione la statua di pietra del Santo, di cui si è detto, attribuita allo scultore rinascimentale Stefano da Putignano, ma anche una seconda statua lignea. Quest’ ultima raffigura sempre S. Rocco proprietà originaria della Colleggiata Insigne (ora parrocchia Matrice Santa Maria Maggiore) e divenuta col tempo la statua utilizzata nella processione molto venerata dai gioiesi. L’ arciprete Domenico Padovano, ora vescovo della diocesi di Conversano-Monopoli, ha ceduto tale statua in comodato gratuito e perpetuo alla chiesa e alla confraternita di S. Rocco. Anche questa statua è stata “recentemente” restaurata ma non è possibile definire data di realizzazione (forse metà ‘800) e autore. Una terza statua professionale e di legno di S. Rocco, più recente è conservata in sacrestia.
Durante il colera che colpì Gioia nel 1837, al quale abbiamo accennato prima, S. Rocco fu invocato dal popolo gioiese con memorabili festeggiamenti che culminarono il 16 agosto, giorno in cui la statua del Santo, ricoperta di doni votivi in oro e argento, preceduta dalla cavalcata aperta dal sindaco, chiudeva la processione su un carro trionfale seguito dai fedeli con i ceri accesi. La processione, prima di fare il giro del paese, sostava in piazza San Francesco per la Supplica e in largo Panessa per assistere ai fuochi pirotecnici. Cessato il contagio, i Gioiesi decisero di istituire i festeggiamenti in onore del Santo. Nel 1860 il consiglio comunale elevava San Rocco a compatrono di Gioia assieme a San Filippo Neri (in seguito proclamato patrono di Gioia). Per l’occasione, un mese prima della festa, una statua del Santo veniva prelevata dalla Chiesa Madre e veniva portata in processione in quella di San Rocco per l’inizio della funzioni religiose. La sera del 16 agosto, ormai al culmine dei festeggiamenti in suo onore, la statua del Santo veniva portata processionalmente nella Chiesa Matrice dove vi rimaneva tutto l’anno.
Particolare era la consegna da parte del clero del cappello d’argento che, prelevato dall’abitazione dei un devoto, veniva applicato alla statua prima della processione.
Oggi, sopravvive solo la festa religiosa e la processione che si svolge il 16 agosto. In chiusura di serata ci sono da ammirare i tradizionali fuochi pirotecnici di fine festa.




CONFRATERNITA DELLE BEATA VERGINE DEL MONTE CARMELO

E’ del 1882 il primo documento ufficiale dell’istituzione della Confraternita: l’Arcivescovo di Bari, Monsignor Francesco Pedicini, l’8 gennaio del 1882 dà l’assenso appunto alla costituzione della Confraternita della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo. E’ possibile presumere la sua presenza a Gioia del Colle già dal 1886, quando cessa di esistere la Confraternita del Santissimo Sacramento che aveva sede nella Chiesa Madre e che molto probabilmente è stata la prima Confraternita di Gioia del Colle. Questa si venne a sostituire nelle funzioni che usualmente erano svolte dalla Confraternita del Santissimo Sacramento in Chiesa Madre: infatti, nell'art. 2 della “Regola” approvata dall’Arcivescovo (Regola datata al 29 giugno 1881 “festività del SS. Apostoli Pietro e Paolo”), sotto la voce “Obblighi” si delega l’assolvimento di tutti gli obblighi di culto che spetterebbero alla Confraternita del Santissimo Sacramento a questa Confraternita (oltre naturalmente ad intervenire alle processioni di rito com’è d’uso in tutte le confraternite).
Ancora, per Statuto la Confraternita deve prestare servizio durante i riti della Settimana Santa, accompagnare la processione del Santissimo Sacramento ogni terza domenica del mese, essere presente durante l’ottavario del Corpus Domini e nelle processioni delle Rogazioni (processioni penitenzialiali cattoliche di propiziazione per il buon esito delle semine e dei raccolti). La documentazione con le Regole approvate dall’Arcivescovo evidenzia la motivazione che ha portato alla fondazione della Confraternita: << acquisire maggiore timore di Dio ed adempiere esattamente i suoi comandamenti …esercitarsi per quanto a ciascuno appartiene negli atti8 della vera e pura carità cristiana verso il prossimo, e specialmente verso gli aggregati medesimi che si debbono considerare come veri fratelli >>. La vita spirituale della Confraternita sarà affidata all’Arciprete e la vita della fratellanza sarà modellata su quella della medesima Confraternita “della città di Bari”. L’abito che i confratelli indossano nelle processioni è composto di un camice bianco con mozzettone avorio profilato in marrone, con una pazienza del medesimo colore e un medaglione raffigurante la Madonna del Carmelo; le consorelle invece (alla cui ricezione nella Confraternita è riservato l’art. 14 della Regola) indossano solo la medaglia con un nastro marrone appunto sulla schiena. L’accoglienza di nuovi confratelli e consorelle avviene il giorno della festa della Madonna, il 16 Luglio, anche come esempio e testimonianza pubblica della spontanea adesione agli <> della Confraternita. Il numero di iscritti alla fondazione della stessa non è possibile stabilirlo dal momento che dai registri dei verbali risultano solo i nomi degli uomini che tuttavia si presume fossero inizialmente in numero maggiore rispetto alle donne, che compaiono per la prima volta nei registri in data 28 marzo 1929 quando, assieme appunto a tale elenco di consorelle viene ribadito l’obbligo di accompagnare i funerali e di recitare il rosario alla morte di ogni confratello o consorella. Attualmente gli iscritti sono 100, di cui 30 uomini e 70 donne. La sede della Confraternita è presso la Chiesa Madre, dove ha a disposizione una stanzetta nel transetto sinistro, da cui è possibile anche accedere al campanile più vecchio di proprietà della Confraternita, utilizzato nei giorni dei festeggiamenti della Madonna (15-16 luglio). Non dispone di una cappella propria al Cimitero. La Confraternita ha acquistato nel passato: due campane a martello allogate sul suddetto campanile, l’immagine di Maria SS. Del Monte Carmelo, due angeli, in gesso, con porta lampade e la “bandieruola”; quest’ultima, chiamata comunemente stendardo della Congrega, è fatto in stoffa pesante marrone, con decori in argento a forma di foglie d’acanto e l’immagine ricamata della Vergine fra le anime purganti. Ogni anno tale insegna apre il corteo che precede la statua della Madonna portata in processione con grande e sentita partecipazione dei fedeli. Dal 1994 tale stendardo è stato di fatto sostituito da un altro più leggero e maneggevole e così è stato, ma poiché tutti avevano ancora caro il precedente e antico stendardo alla fine si è deciso di portarli entrambi in processione: quello più antico e pesante sostenuto dagli uomini, quello più leggero e nuovo dalle donne. La Confraternita dispone di altri due stendardi: uno, utilizzato per i festeggiamenti solenni della Madonna, l’altro, in stoffa pesante nera e sul quale è raffigurato un teschio di colore bianco, che viene utilizzato negli accompagnamenti funebri di confratelli e consorelle defunti. La statua della Madonna è in cartapesta, gesso e stoffa a grandezza naturale e sostiene sul braccio sinistro il Bambino che quasi senza peso è tutto volto in basso e stringe e offre nelle piccole dita lo scapolare. Entrambi portano sul capo due corone ovviamente di diversa grandezza ma di eguale fattura in semplice metallo dorato, ma finemente lavorato e impreziosito da cristalli colorati a mò di gemme.
La Confraternita dispone, inoltre, di:

  • una Croce in legno utilizzata in precedenza nelle processioni solenni o accompagnamenti funebri, e che oggi è conservata nella sacrestia, sede della Confraternita;
  • due candelieri in argento, posti sulla mensa dell’altare maggiore nei giorni della novena e della festa della Madonna;
  • due pianete o casule (paramento sacro indossato dal sacerdote), delle quali una in stoffa pesante sulla quale è dipinta l’immagine della Vergine, l’altra in stoffa leggera sulla quale è raffigurata la “M” Mariana. Entrambe sono conservate nella sede della Confraternita e mentre la prima descritta non è più utilizzata, la seconda è indossata ancora oggi dal sacerdote durante i giorni dedicati ai festeggiamenti della Madonna.
  • due “lampari” in ottone illuminati all’interno da una candela, portati in processione e posti ai due lati della statua.
Durante il corso degli anni la Confraternita ha ritrovato e sta ancora cercando altri oggetti sacri che si presupponga siano appartenenti alla stessa, ma non avendo dati ufficiali la Confraternita sta appunto ancor oggi cercando nell’archivio dei dati che lo accertino. Tale Confraternita non possiede grandi mezzi o beni notevoli anche se il nostro Arciprete, che è anche Padre Spirituale, custodisce un piccolo “tesoro”: alcuni gioielli di modesto valore economico che la religiosità e la fede popolare hanno spontaneamente e generosamente donato alla Madonna. Un ultimo documento degno di nota: nella fascia circolare su cui si imposta la cupola, all’incrocio della navata centrale col transetto, appare una scritta datata 1938: “A.D. MCMXXXVIII CONFRATERNITAS MARIAE VIRGINIS DE MONTE CARMELO IN LAUDEM MATRIS ET DEI HOMINUM”, forse a testimonianza dell’offerta da parte della Confraternita di rinnovati affreschi a decoro del soffitto della Chiesa Madre di cui ripetiamo la Confraternita è << ospite >> e tuttavia presenza discreta e liturgicamente attiva nella grande famiglia della Parrocchia. 
SCAPOLARE
Parte significativa dell’abito dei confratelli del Carmelo è lo scapolare. Come tante altre devozioni, è difficile stabilire con precisione le origini della devozione allo Scapolare del Carmelo. “Scapolare” viene da “scapola” e indica quell’indumento che ricopre sia il petto e sia le spalle o scapole, dopo averlo infilato per la testa. I primi documenti che ne parlino nel secolo XIII sono le costituzioni carmelitane. Vi troviamo prescritto che ogni religioso abbia due scapolari cappucciati. Inoltre si ordina che la cappa bianca (mozzettone), sia confezionata in modo da lasciare visibile lo Scapolare, “abito dell’ordine”. Durante il secolo XIV nessuno si occupò della descrizione dell’abito, ma in seguito il Riboti descrive la foggia di vestire del carmelitano e ne evidenza il simbolismo. Diceva che lo scapolare andava portato sempre di giorno e di notte, con la massima diligenza, perché significa il “giogo” di Cristo, che poi è la santa obbedienza che sola viene promessa come voto. All’atto della professione religiosa, perché riflesso dell’atto fondamentale col quale Cristo ha operato l’umana professione. La devozione dello Scapolare della Madonna del Carmine negli ultimi secoli e fino a non molti anni fa era arrivata ad accentrare su di sé, in forma quasi eccessiva, l’attenzione dei fedeli, come se questo simbolo esprimesse l’intera “predicazione carmelitana” a riguardo di Maria. Quando, in tempi più recenti, venne messa in forte dubbio la storicità di una certa visione sullo Scapolare, parve che l’Ordine Carmelitano non avesse molto da dire sul riguardo. Invece si rivelò ancora più necessario il ripensare in modo più ampio e approfondito quella stessa storia che fece nascere e nutrire per secoli la devozione dello Scapolare: storia che resta intatta e valida, nonostante il vacillare di alcune tradizioni. L’Ordine Carmelitano, a differenza di quasi tutti gli altri Ordini religiosi, non ha un preciso fondatore: alla sua origine ci sta infatti un gruppo anonimo di eremiti, forse ex Crociati che, verso il 1190, si ritirarono sul Monte Carmelo, in Palestina, per vivervi in solitudine, ascesi e preghiera contemplativa, a imitazione del biblico profeta Elia (allora considerato Padre e Maestro di tutti i monaci) e di quelli eremiti che si trovavano appunto a vivere sul monte a lui caro. Una delle prime notizie certe è che questi eremiti si costruirono là una casetta dedicata a Maria, riconoscendo così a lei quelle caratteristiche che normalmente si riconoscono ai padroni e ai fondatori: vennero perciò chiamati “Fratelli della Beata Vergine Maria”. Quando questi Carmelitani furono definitivamente costretti dai Saraceni a trasmigrare dalla Terra Santa in Europa, alla caduta del Regno Latino nel 1291, vi giunsero ignoti, indesiderati, sospettati perché senza un fondatore a cui richiamarsi, e bisognosi dell’attenzione e dell’approvazione della Chiesa. Ciò che essi più difesero, assieme al loro diritto all’esistenza, fu il titolo di “Fratelli di S. Maria del Monte Carmelo”, titolo che scatenò una lunga e dura controversia, tipicamente medievale, comprensibile cioè in un epoca in cui si dava un’enorme importanza ai titoli e ai privilegi del “patronato”, ossia dell’essere insieme a servizio e sotto la protezione di questo o quello. I nuovi frati riuscirono a spuntarla ottenendo dai pontefici perfino delle indulgenze per chi li chiamava esattamente col loro titolo mariano (usandolo,cioè,a modo di giaculatoria). Queste notizie riguardano monaci o frati,ma centrano comunque con i confratelli, eredi e custodi di queste tradizioni e di questa cultura. Per i non appartenenti alla Confraternita viene dato ai fedeli, in occasione della festa del Carmine, uno scapolare simbolico costituito da una striscia di stoffa da mettere al collo. All’estremità della striscia vi è una immagine della Madonna col Bambino su stoffa marrone. Questo oggetto sacro è lo stesso oggetto che la Vergine dà alle anime penitenti sotto di Lei, nel quadro a lei dedicato sull’altare privilegiato della Confraternita in Chiesa Madre.


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